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Risk Management e prevenzione Il parere dell'esperto
Published on 11 Settembre 2025 Modificato il 11 Settembre 2025
Contributors
  • il team Relyens
Time to read: 5 minutes

Medicina di genere e gestione del rischio: leve strategiche per un sistema sanitario più equo e responsabile

C’è un cambio di paradigma che sta trasformando il modo in cui viene pensata la salute. La medicina di genere – spesso ancora fraintesa o relegata a nicchia – rappresenta oggi un criterio imprescindibile di appropriatezza clinica. Non una specializzazione, ma un approccio trasversale, capace di rendere le cure più efficaci, più sicure, più giuste.
Un approccio che tocca ogni fase della cura: dalla diagnosi al trattamento, dalla prevenzione al risk management, sempre più centrale nella gestione clinica e organizzativa.

Ne parliamo con Vincenza Palermo, Presidente nazionale di COMLAS, che recentemente ha scelto di dedicare al tema un webinar dal titolo “medicina di genere: riconoscere le differenze per garantire appropriatezza nelle cure”. La dottoressa, referente per l’ASLTO4 nel Gruppo di lavoro a ciò dedicato dalla Regione Piemonte, da anni si impegna per portare questo approccio all’attenzione del sistema sanitario e dei suoi professionisti, con l’obiettivo di promuovere una medicina più equa e consapevole.

La medicina di genere rappresenta un cambio di paradigma importante. Iniziamo dalle basi: cosa si intende per medicina di genere?

Sì, possiamo davvero parlare di cambio di paradigma, soprattutto se pensiamo che la medicina, fin dalle sue origini, ha avuto un’impostazione androcentrica e tutta la storia della ricerca medica, ha sempre cercato di porsi in modo neutrale rispetto al genere. Oggi, invece, sappiamo che uomini e donne hanno non solo differenze biologiche e ormonali, ma anche risposte diverse, ai farmaci, alla comparsa dei sintomi e ai percorsi di cura per le comuni malattie.
Per fare un paragone chiaro: così come ci siamo accorti che il bambino non può essere considerato un “piccolo adulto”, allo stesso modo abbiamo compreso che la donna non può essere considerata una copia dell’uomo perché essere simili non significa essere sovrapponibili; già questo è un paradosso. La medicina di genere è quindi un approccio che integra le differenze in tutti gli ambiti della salute: dalla prevenzione alla diagnosi, dalla terapia alla riabilitazione.
Come per il bambino si è addivenuti ad una nuova specialità di Pediatria, che a sua volta ha dato origine alla neonatologia, ed anche per l’anziano, per le peculiari caratteristiche fisiopatologiche, è stata istituita un’ulteriore branca specialistica di «Geriatria», così lo studio della donna deve essere declinato secondo il genere. La Medicina di genere dunque non è una nuova branca specialistica ma è una «nuova» dimensione della Medicina che coinvolge tutte le specialità mediche.

Durante il webinar ha parlato della medicina tradizionalmente “androcentrica” e della cosiddetta “sindrome bikini”. In che modo si sta superando questa visione?

Il superamento di una medicina androcentrica è un processo in corso da almeno vent’anni, da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inserito la medicina di genere nel proprio Equity Act, nel 2000. Per decenni, la medicina si è basata sul corpo maschile come modello di riferimento. I protocolli, la ricerca, i dosaggi farmacologici: tutto ruotava intorno all’uomo adulto. La “sindrome bikini” descrive proprio questa distorsione, per cui lo studio della salute delle Donne non può essere più circoscritto alle patologie esclusivamente femminili che colpiscono mammella, utero e ovaie. Oggi, grazie a un lavoro costante di ricerca e divulgazione, questa impostazione si sta scardinando. Non è un fenomeno nuovo, ma un percorso strutturato, con tappe precise come l’elaborazione, già nel 2010, delle linee guida Agenas e ISS sull’appropriatezza delle cure orientate al genere. Nonostante ciò, la loro diffusione è ancora limitata: pochissimi professionisti ne conoscono l’esistenza o l’applicazione concreta. Per questo è importante continuare a parlarne e rafforzare la consapevolezza, sia a livello istituzionale che formativo.

A proposito di formazione: quali sono le sfide degli operatori sanitari per un approccio di medicina di genere durante la propria fase di apprendimento?

Questo cambiamento culturale non può esistere se non parte dalla formazione, e su questo c’è ancora molto da fare. Serve agire fin dall’università, integrando i principi della medicina di genere in modo trasversale, e non trattandola come un modulo aggiuntivo o una nicchia specialistica. La sfida più grande è culturale: è necessario superare una visione ancora stereotipata e spesso inconsapevole. Secondo il GISEG – il Gruppo Italiano Salute e Genere – gli ostacoli principali si trovano proprio nella sottovalutazione degli effetti pratici e la scarsa consapevolezza da parte del personale sanitario. Ecco perché la medicina di genere deve essere presentata per ciò che è: un criterio di appropriatezza, di qualità, di equità e sicurezza delle cure che impatta sulla pratica clinica quotidiana e sulla salute delle persone. Peraltro occorre rilevare che l’Italia è la prima nazione che si è dotata della legge 11 gennaio 2018, n.3 che all’art. 3 promuove “L’applicazione e diffusione della medicina di genere”, ma la sua applicazione stenta ancora a decollare.

Quindi, di conseguenza, impatta anche sul rischio clinico? Secondo lei, in che modo il risk management è importante all’interno di questo tema?

Se riprendiamo quanto detto prima, il passaggio verso una medicina sensibile al genere non è solo un fatto etico o culturale ma, appunto, anche una questione di gestione del rischio. Il risk management può e deve diventare un alleato strategico della medicina di genere. Riconoscere le differenze significa prevenire errori, migliorare l’appropriatezza delle cure, ridurre eventi avversi e aumentare la sicurezza del paziente garantendo l’equità delle cure. Pensiamo, ad esempio, alle reazioni avverse ai farmaci: il 60% di queste si verifica nelle donne, anche a causa di protocolli non tarati sul corpo femminile. In questo senso, integrare la medicina di genere nei percorsi assistenziali non è una scelta in più, è una condizione necessaria per un sistema sanitario davvero sicuro, efficace e sostenibile.

Durante il webinar organizzato da COMLAS, Anna Guerrieri ha sottolineato come la medicina di genere possa apportare risparmi al sistema sanitario. Come si inserisce questo aspetto nella gestione del rischio e nella medicina di genere?

Condivido pienamente le parole della dottoressa Guerrieri. La cultura del rischio è fondamentale per una gestione sanitaria che sia più efficiente e più equa. In particolare, la medicina di genere permette di ottimizzare le risorse, prevenendo errori diagnostici e terapeutici che potrebbero generare costi elevati e mettere a rischio la sicurezza dei pazienti. Per fare un esempio tangibile, prendiamo in riferimento la cardiologia (che oggi è anche quella più “evoluta” nella medicina di genere): nelle donne, l’infarto può manifestarsi con sintomi diversi rispetto a quelli classici maschili. Se non si riconoscono quei segnali, si rischia di rimandare a casa una paziente senza diagnosi, con il rischio di complicazioni gravi, quando non mortali, a domicilio. Questi errori diagnostici non solo mettono a rischio la vita delle persone, ma generano costi evitabili per il sistema sanitario e per le compagnie assicuratrici. Al contrario, l’integrazione della medicina di genere porta benefici che si riflettono anche in termini economici: meno sprechi, più appropriatezza, più sicurezza, più equità nelle cure.

Guardando al futuro, quali scenari immagina per una sanità dove il risk management e la medicina di genere lavorano in modo sinergico?

Mi auguro una sanità dove la medicina di genere sia parte del DNA organizzativo, e non un’etichetta da applicare quando serve. Dove il risk management non sia solo un sistema di controllo, ma una leva per promuovere qualità e innovazione. Un sistema così può diventare più equo, più efficace, più efficiente e, soprattutto, capace di adattarsi ai bisogni reali delle persone, nella loro complessità e unicità. Equità, in questo senso, significa offrire a ciascuno il trattamento più adeguato, in base ai propri bisogni e non quelli dettati dalla media statistica. È un approccio scientifico, personalizzato, che rappresenta l’evoluzione naturale della medicina moderna.

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