Valutare il danno sanitario oggi: un percorso articolato tra sicurezza delle cure, risk management e gestione dei claims
Nel campo della responsabilità sanitaria, la gestione del rischio clinico è una delle sfide più complesse e delicate. Non si tratta solo di assicurare gli effetti dannosi correlati alle prestazioni, ma di prevenirli, comprenderli nella loro reale eziologia e permetterne una valutazione coerente al contesto in cui si sono verificati, supportata scientificamente e dotata di un apparato gestionale efficace ed efficiente. Un processo che coinvolge medici legali, periti, liquidatori e strutture sanitarie, e che richiede competenze integrate, strumenti condivisi e formazione continua.
A tal proposito, abbiamo intervistato il Dott. Lorenzo Polo, Direttore UOC Risk Management, Qualità, Contenzioso e Medicina Legale del Policlinico San Matteo di Pavia, che da oltre trent’anni si occupa di responsabilità professionale sanitaria come medico legale.
Dott. Polo, quali sono, secondo lei, le principali trasformazioni che ha vissuto il mondo assicurativo in ambito sanitario negli ultimi anni?
Quella che stiamo vivendo non è solo un’evoluzione, ma una trasformazione di paradigma. In un recente passato le garanzie sul rischio sanitario si sono focalizzate essenzialmente sul mondo assicurativo: si trattava di garantire copertura economica a fronte di un evento dannoso ciò implicando l’aver stipulato una polizza che ne sopportava l’onere. Oggi, invece, si sta affermando un approccio più complesso e maturo, che ha come obiettivo la mitigazione e la gestione del rischio clinico riducendo la magnitudo degli eventi avversi e conseguentemente la sostenibilità del sistema assicurativo. Relyens, in questo senso, rappresenta una realtà pregevolmente innovativa: non è solo una compagnia assicurativa, è un vero partner per la sicurezza delle cure in quanto interviene a supporto delle attività di risk management sia in linea generale che particolare. Questo significa integrare competenze diverse, favorire un dialogo continuo tra medico, perito, liquidatore, gestore del rischio e struttura sanitaria. L’obiettivo non è solo indennizzare un danno, ma agire con modalità proattive e sinergiche al fine di evitare che il rischio non si attualizzi una seconda volta determinando lo stesso evento avverso. Ed è proprio questo il percorso che, a mio parere, il mondo assicurativo dovrebbe intraprendere in una visione moderna, con il passaggio da un sistema tradizionale a un approccio basato sul risk management.
Parliamo della valutazione medico-legale, spesso indicata come il primo snodo della filiera. Qual è la criticità principale in questa fase e che ruolo svolge il consulente medico-legale?
Il consulente medico-legale è la figura che, per prima, valuta se sussiste un nesso causale tra un evento avverso e una prestazione sanitaria, valutata nel suo complesso, nel caso questa non sia conforme alle linee guida o buone pratiche accreditate riferite al caso concreto. In seconda battuta, valuta quale tipo di danno ne sia derivato. Ma la difficoltà sta nel fatto che spesso questo momento fondamentale viene approcciato con modalità non empiriche, improntate a valutazioni soggettive e prive della necessaria forza scientifica, distanti dalla metodologia condivisa propria della disciplina medicolegale.
La giurisprudenza stessa, per quanto offra indirizzi e orientamenti su specifiche tematiche, non può condizionare il pensiero medicolegale sulle questioni più tecniche; pertanto, deve essere vagliata criticamente; evidenzio che essa è mutevole, spesso contrastante rispetto a fattispecie omologhe, e viene frequentemente strumentalizzata a seconda della discrezionalità con cui il fatto storico oggetto del conflitto viene valutato.
Dobbiamo pertanto spingere verso un cambio di rotta: servono strumenti valutativi che siano affidabili e replicabili. Il consulente medico-legale, da qualsiasi prospettiva affronti una problematica, deve essere un professionista in grado di costruire un ragionamento strutturato, comprensibile e trasparente. Questo è fondamentale sia per tutelare chi ha subito un danno, sia per garantire equità ed efficienza nel processo liquidativo.
Uniformare i criteri valutativi è oggi una delle grandi sfide. Raggiungere questo obiettivo cosa comporterebbe?
Vorrebbe dire ridurre la variabilità interpretativa su base discrezionale. In Italia, oggi, per uno stesso evento clinico si possono avere valutazioni completamente diverse, a volte antitetiche. Questo non è accettabile. La valutazione del danno deve basarsi su elementi clinici, tecnici, concreti e oggettivi. Dobbiamo creare checklist, score, criteri che possano essere utilizzati dai consulenti e dai gestori dei claims, in modo da avere un linguaggio comune. È necessaria un’integrazione delle competenze che permetta all’evento avverso che produce un risarcimento di rappresentare il momento strategico della prevenzione del rischio. Di rischio clinico se ne parla molto più “sulle scrivanie” che “sul campo” e la cultura del rischio deve essere alimentata se si intende costruire una gestione del rischio efficace. Se tutti adottano lo stesso metodo valutativo e si parla una lingua comune, si crea un sistema più solido, trasparente, anche più difendibile in caso di contenzioso.
Tra gli elementi che più mettono alla prova questa uniformità c’è il danno da perdita di chance. Cosa rende così difficile la sua valutazione?
Il danno da perdita di chance è espressivo di una categoria concettuale ormai ben configurata e sussiste tutte le volte che l’effetto di una condotta è dominato dall’incertezza: cosa sarebbe accaduto se la condotta fosse stata corretta? È un danno per definizione contrassegnato dall’incertezza e dalla cosiddetta “possibilità eventistica”; questo lo rende difficile da provare, da quantificare, da monetizzare e, di conseguenza, si riducono le possibilità di condurre un’attività conciliativa. Il vero rischio è che questa posta di danno, a causa della variabilità e indeterminatezza con cui può essere riconosciuta e stimata, diventi un contenitore dalla morfologia cangiante, in cui far rientrare indebitamente tutto ciò che non si ha la forza di definire altrimenti. Per affrontarlo in modo rigoroso, serve un approccio strutturato: analisi delle variabili cliniche, studio dei protocolli terapeutici, confronto tra esiti attesi ed esiti reali. Solo così possiamo costruire argomentazioni solide, coerenti, motivate da proporre alle parti e ai consulenti tecnici d’ufficio per ottenere un risultato efficace.
Un altro tema delicato è la quantificazione delle spese future. Come si può affrontarlo con maggiore solidità scientifica?
Anche qui la variabilità è altissima. Se pensiamo a un neonato con una grave compromissione neurologica, le spese previste per la sua assistenza nei decenni successivi possono essere stimate in modo molto diverso, a seconda della criteriologia che guida il ragionamento. È necessaria una metodologia il più oggettiva possibile, che parta da variabili cliniche reali e si prospetti con una prognosi realistica o si ispiri a una predittività scientificamente fondata. Lavorare con score clinici e checklist è una possibile strada: per esempio, se un paziente è tracheotomizzato, allettato, alimentato con PEG e non comunicante, possiamo costruire una previsione di spesa ragionata, che tenga conto di tabelle di costo aggiornate e di una valutazione realistica sulle aspettative di vita. In questo modo possiamo garantire una liquidazione più equa, più efficiente e certamente difendibile.
Tutti questi aspetti richiedono competenze tecniche, cliniche, legali e relazionali. Quanto conta, allora, investire nella formazione di chi si occupa di valutazione del rischio sanitario?
Conta moltissimo. La valutazione del danno non può essere solo teorica: va esercitata, confrontata, discussa. Lavorare su casi reali, comparare i differenti approcci, aiuta a costruire modelli operativi replicabili. Ogni caso è un esercizio di valutazione, negoziazione ed è utilissimo in chiave preventiva. Se vogliamo usare un semplice slogan noi “dobbiamo imparare dall’errore” ogni giorno. Confrontarsi sulle divergenze valutative, anche se significative, consente di capire quanto le variabili cliniche contestuali e relazionali incidano sull’esito finale. Ragionare su questi snodi significa costruire competenza. E questo vale tanto per il consulente medico-legale quanto per il liquidatore: perché la qualità della valutazione dipende dalla capacità di leggere le sfumature, di argomentare le scelte, di rendere il proprio giudizio trasparente e coerente in un binomio inscindibile di competenze e sinergia.
Guardando al futuro, quali evoluzioni vede nella gestione del rischio sanitario? E quale ruolo possono giocare realtà come Relyens in questo scenario?
Il sistema si sta finalmente muovendo verso una maggiore integrazione tra prevenzione, analisi del rischio e gestione del contenzioso. Ma serve un salto culturale: dobbiamo imparare a leggere gli eventi avversi non solo in chiave risarcitoria, ma come occasioni per migliorare i processi e la qualità delle cure. In questo percorso, realtà come Relyens possono giocare un ruolo importante. Lo hanno già fatto, portando formazione e visione strategica all’interno delle strutture sanitarie. Un passo di maggior valore aggiunto, forse, potrebbe essere quello di avere maggiore coraggio nell’attuazione di programmi che diano operatività concreta e progressiva. Penso al mondo dei professionisti – periti, medici legali, consulenti tecnici – che oggi operano spesso in posizione marginale rispetto ai grandi soggetti assicurati. Aprirsi anche a loro, includerli nelle politiche assicurative, potrebbe generare sinergie nuove e rafforzare l’intera filiera della gestione del rischio. È una sfida, ma anche una grande opportunità da cogliere al volo per anticipare ciò che si preannuncia.
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